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È la “terra” il mezzo di espressione artistico di Romana Vanacore.
Inizialmente orientata verso la rielaborazione delle antiche tecniche di lavorazione della ceramica. Sin dagli anni Ottanta Romana Vanacore sperimenta le potenzialità plastico espressive di impasti di diversa provenienza, reinterpretando le forme, alterando dialetticamente i tradizionali rapporti di decorazione e forma.
Sceglie l’argilla, duttile ed espressiva, per tradurre in forma le proprie emozioni rendendole esplicite e condivisibili.

Alla fine degli anni ’90, la ciotola, forma primigenia, assoluta, libera da qualsiasi applicazione utilitaristica, diviene il punto di riferimento della ricerca. Assemblaggi, sovrapposizioni, danno vita a forme dinamiche con basi fluttuanti dagli equilibri morbidi ed incerti. L’orientamento sperimentale ed espressivo è rivolto alle potenzialità di trasformazione di forma e superficie, alla necessità di far convivere, confrontandosi, gli opposti attraverso un cromatismo ridotto all’essenzialità del bianco e nero.
La ricerca la porta a lavorare con argille più raffinate come la porcellana, il grès e la paper clay. Crea impasti con fibre vegetali che bruciano durante la cottura lasciando una delicata impronta, una traccia, una memoria. Realizza  forme organiche, dove l’intenzionalità compositiva lascia affiorare un retroterra concettuale che dialoga con una casualità cromatica di matrice informale. Il riferimento alla natura rende la sua ricerca arcaica ed attuale.

“La mia ricerca è rivolta alla rielaborazione di antiche tecniche di lavorazione e cottura della ceramica. Utilizzo argille di diversa provenienza e ne sperimento le diverse possibilità plastico espressive. Un carattere significativo delle mie opere è la necessità di far convivere e dialogare gli opposti attraverso un cromatismo ridotto all’essenzialità del bianco e nero e interventi sulla superficie che da estremamente levigata può diventare corrugata e ricca di fenditure.”

Romana Vanacore (1958) vive e lavora a Roma.


CRITICA

La ricerca di Romana Vanacore, giovane artista operante a Roma, assume quale campo sperimentale un oggetto di tradizione la ciotola, il vaso quale elemento archetipico dentro le cui vene accede con una operazione che ha i connotati dell’indagine.
La verifica della tenuta dello spessore, indotto a limiti sottili di tollerabilità, ne rimette in discussione la funzione d’uso a favore della valenza plastica. Il processo di assemblaggio di forme reiterate collocano il manufatto che ne consegue su un piano nel quale viene acquisita ed esaltata la componente ritmica.
L’intervento manuale modifica il modulo originario per restituirlo al livello della scultura che, adeguatamente contestualizzato, vive un’autonoma presenza.
Poiché l’attenzione dell’artista è rivolta alla componente strutturale, la cromia è indotta all’essenzialità del nero e del bianco. Il procedimento della cottura, affidato ad un’accorta casualità che segna la stesura degli smalti, le fratture prevedibili, enuncia intenzionalità compositive dalle quali affiora un retroterra concettuale.
La tecnica di cottura Raku, che l’artista ha studiato e approfondito in tutti gli aspetti applicativi, stabilizza l’opera in grigi scuri compatti con superfici matericamente vibranti, che conferiscono all’oggetto leggerezza e sensibilità.
Luciano Marziano


Opere 2013-2016
Forme concave, simili a conchiglie si moltiplicano come colonie di madrepore a coprire ideali superfici irregolari.
Porcellana mista a fibre vegetali genera anelli che si assemblano con grazia.
Sagome libere, quasi auto generanti, in cui la cura del dettaglio è l’anima.
Bianco.
Bianco il comune denominatore della recente ricerca di Romana Vanacore.
Ciò che colpisce è il nitore; sembra impossibile che siano state generate da mano umana.
In In fondo al mare elementi lucidi, riflettenti o opachi, creano organismi unici, irripetibili. Si avverte un ritmo, forse sincopato, comunque non ossessivo, caratterizzato da un senso di equilibrio.
Ma, all’improvviso, nel 2014, la ricerca cambia direzione; mi verrebbe da dire “scarta”.
Non più equilibrio e regolarità ritmica. Gli elementi modulari di ispirazione zoomorfa scompaiono. Nella serie Respiro, una pasta carnosa fatta di involuzioni, annodamenti, contorsioni domina un nuovo universo sensibile; un magma che Romana Vanacore argina entro forme regolari.
E’la drammaticità del caso che l’artista cerca di contenere.
La ricerca della Vanacore ha virato di 180° passando dalla raffigurazione di un universo sistematico a quella della drammaticità dell’imprevedibile.
Da questa fase, lentamente, l’artista cerca di ritrovare la regola, l’ordine, l’equilibrio.
Il percorso è lungo: bisogna procedere gradualmente per recuperare e consolidare il ritmo.
Nell’opera dall’emblematico titolo Divenire, ancora entro argini definiti, elementi nastriformi sostituiscono il vischioso elemento magmatico. E’ un primo passo, quasi una danza, in cui l’artista, con rigore calibrato, ritorna alle origini della materia che plasma.
In 46 profili forme antiche vengono trasformate in sagome note, forme che emergono grazie a raffinati giochi di luci e di ombre in una bidimensionalità capace di suscitare memorie lontane. Opera unica, contemporaneamente punto di arrivo e di partenza.
E’ da qui che inizia la nuova ricerca tridimensionale della Vanacore. Silhouette, nella sua doppia versione 180° e 360°, materializza con rigore geometrico realtà e illusione evolvendo in Forme dinamiche scultura capace di suscitare antiche memorie futuriste
Ma è con Nike che l’artista recupera la serena libertà del modellato, abbandonandosi al gioco delle linee morbide adagiate su forme di memoria classica.
2013-2016 documenta tre anni di intensa attività di un’artista che individua nella ricerca artistica il filo conduttore della propria esistenza.
Laura Mocci


L’opera di Romana Vanacore sulle tracce della Natura
Romana Vanacore è un’artista che ha individuato nella ceramica il proprio medium. Non uso per lei il termine ceramista, che pure sarebbe appropriato, perché nell’uso comune esso evoca prevalentemente la prassi artigiana, mentre Romana, pur conoscendo perfettamente tutte le tecniche con le quali tale materia può essere lavorata e ricollegandosi spesso alle forme della tradizione, approda ad esiti completamente nuovi.
Ciò emerge fin dai lavori degli anni Novanta, quando il tema del vaso e della ciotola sono da lei reinterpretati sia in relazione alla forma sia utilizzando l’elemento decorativo come dialettico alla forma stessa ed in grado quindi di produrre una vera alterazione percettiva. Queste opere sono in argilla refrattaria bruna, lavorate a Colombino o a Lastra, decorate ad ingobbio e smalto, alcune con tecniche di cottura Raku e di Naked Raku. Nei primi anni Duemila sperimenta l’argilla refrattaria steccata e la tecnica di cottura Pit Fire. In seguito lavora con argille più raffinate quali porcellana, gres e paper clay e smalti per alte temperature. “Disegna” lastre di porcellana sovrapponendo ad esse fili di rame che, in fase di cottura, si fondono col loro supporto. Sperimenta contaminazioni tra porcellana e mosaico in pietra.
Sempre dominante è l’amore per l’argilla, per quella materia così duttile da poter assumere le forme più varie, quella materia che consente di recuperare l’atto primigenio di Dio. E l’atto di Romana Vanacore è dettato dall’ossequioso omaggio alla creazione, nella consapevolezza del suo vertice irraggiungibile sì ma che comunque è punto assoluto di riferimento.
È evidente, da parte della Vanacore, un preciso rimando alla poetica dell’Informale, prescindendo dai limiti storicistici del movimento, in quanto ne condivide l’esplorazione delle potenzialità della materia, sia sul piano espressivo sia su quello emozionale. Ed è quello che ella fa col suo continuo sperimentare sempre nuove tecniche e col suo operare continue varianti, modificando in parte uno degli elementi, dal tempo di cottura al tipo di argilla. Pur essendo infatti sempre presente il controllo dell’artista è pur vero che l’effetto finale non è mai scontato ma contiene un quid di casualità. Certamente la poetica della Vanacore presenta indubbi contatti con quella di Burri, massimo esponente dell’Informale in Italia, anche in riferimento all’indagine sulle superfici che portò il maestro a realizzare i cretti e che porta lei ad elaborare, in mille varianti, le superfici.
E le sue superfici sono ora lisce ora scabre, ora lucide ora opache, ora levigate ora con effetti di fessurazioni-impronte-lamelle, ora concave ora convesse, ora tese ora ripiegate su se stesse, il tutto col fine di creare, per ogni opera, una risoluzione specifica superficie-forma e di ottenere una dialettica pieno-vuoto che affida all’ombra la funzione cromatica.
Ma a prescindere dalle infinite varianti tecniche, il principio a cui Romana Vanacore si affida è quello che gli antichi chiamavano il gran libro della natura. Le sue opere nascono dai deserti, dagli abissi marini e dalle terre carsiche. L’artista individua la bellezza nella realtà naturale più intima e segreta, quella che si materializza ai nostri occhi dai telescopi e dai microscopi o dagli ambienti terrestri meno frequentati. Per lei, infatti, la forma si sviluppa dalla natura, dal cristallo alla tettonica, dall’uovo alla conchiglia. In tale ottica la sua opera è al contempo arcaica e attualissima. L’artista, nel realizzare ogni opera, sembra volersi appropriare di un ulteriore segreto che la natura ancora voleva celare, e tale appropriazione le consente di crescere umanamente ed artisticamente, nella consapevolezza dell’insondabilità dei misteri ultimi.
Stefania Severi